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L’italiano deriva dal latino, o meglio dal cosiddetto latino volgare (vale a dire popolare). Il latino volgare era la lingua quotidiana parlata nell’impero romano, a differenza del latino classico, che era invece la lingua scritta usata per le opere letterarie e insegnata nelle scuole.
Mentre il latino classico era una lingua abbastanza conservativa (cioè non subì grandi cambiamenti), il latino volgare si modificò nel corso dei secoli, mescolandosi alle lingue parlate dalle popolazioni soggette ai romani. Si svilupparono così nuove forme linguistiche, i cosiddetti volgari romanzi, dai quali nacquero le lingue che sono parlate ancora oggi in Europa: il francese, lo spagnolo, il portoghese, il rumeno e l’italiano.
L’evoluzione dal latino alle lingue romanze fu assai lenta. Soprattutto in Italia, la nascita di una lingua volgare omogenea fu un processo faticoso: la presenza di numerosi dialetti e la mancanza di un centro politico egemonico (come fu, ad esempio, Parigi per la Francia) impedirono a lungo la formazione di una lingua italiana. Fino almeno al Trecento non si può infatti parlare di italiano; si deve invece parlare di lingue volgari.
I PRIMI DOCUMENTI IN VOLGARE
Uno dei primi documenti in volgare è il cosiddetto Placito di Capua, del 960 d.C. Si tratta di un documento giudiziario scritto in latino (la lingua del diritto e dell’amministrazione), ma che contiene un giuramento in volgare (per la precisione nel volgare campano) perché pronunciato da una persona non colta. La frase è: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti, “So che quelle terre, entro quei confini che sono qui (cioè in questo documento) riferiti, le possedette per trenta anni il monastero di San Benedetto”.
In volgare erano redatti anche documenti come contratti commerciali, conti e ricevute: artigiani, commercianti, notai e giuristi cominciarono a utilizzare il volgare nei documenti, mentre il latino rimase la lingua colta e della Chiesa.
Intorno al 1230, però, in Sicilia, alla corte di Federico II, un gruppo di poeti e letterati (che diedero vita alla scuola siciliana) inaugurò l’uso del volgare nella tradizione poetica italiana. Qualche anno prima, Francesco d’Assisi aveva composto il Cantico delle creature in volgare umbro (1224).
LA LINGUA DI DANTE, PETRARCA E BOCCACCIO
Nel Trecento il volgare fiorentino cominciò a imporsi sugli altri volgari italiani. Tre furono i motivi di questa egemonia: la somiglianza del fiorentino con il latino (poteva dunque essere facilmente imparato da chi conosceva il latino), il primato economico della Toscana e, soprattutto, la sua vitalità culturale.
All’affermazione del volgare fiorentino contribuirono infatti Dante, Petrarca e Boccaccio, che lo nobilitarono e gli diedero dignità letteraria con tre capolavori: la Divina Commedia, il Canzoniere e il Decameron. Nel 1440 Leon Battista Alberti scrisse una grammatica del volgare fiorentino. Era la prima grammatica dedicata a una lingua volgare.
LA QUESTIONE DELLA LINGUA
Nel Quattrocento gli umanisti promossero un ritorno all’uso del latino come lingua letteraria, ma il loro tentativo non ebbe alcun seguito e all’inizio del Cinquecento scrittori, uomini di scienza, poeti e letterati tornarono a confrontarsi con il problema di una lingua nazionale italiana. Il dibattito coinvolse molti intellettuali, che si divisero in tre correnti.
La corrente detta cortigiana sosteneva che bisognasse utilizzare la lingua delle corti, di fatto il toscano, arricchendola con parole ed espressioni derivate dagli altri volgari italiani e da alcune lingue straniere (purché queste parole ed espressioni fossero raffinate ed eleganti). La corrente fiorentina proponeva di adottare il fiorentino parlato all’epoca, cioè nel Cinquecento. La corrente arcaicizzante, infine, era contraria sia all’uso della lingua parlata nelle corti sia all’uso del fiorentino corrente: la prima non era mai stata usata per comporre opere letterarie e dunque non era stata nobilitata da letterati e scrittori; il secondo non era abbastanza elaborato. La soluzione proposta da questa corrente era di adottare il fiorentino del Trecento: quello di Petrarca per la poesia e quello di Boccaccio per la prosa.
Fu la terza corrente a imporsi, sostenuta anche da un’importante istituzione fondata a Firenze nel 1583: l’Accademia della Crusca. L’Accademia nacque con l’obiettivo di separare la lingua buona da quella cattiva (la “farina” dalla “crusca”) e nel 1612 pubblicò il primo Vocabolario della lingua italiana.
La lingua italiana nacque dunque come lingua letteraria, colta e arcaica, distaccandosi così dalla lingua di uso quotidiano, cioè il dialetto (o meglio, i numerosi dialetti italiani).
La questione della lingua riesplose all’epoca della conquista napoleonica e le polemiche proseguirono per tutto l’Ottocento. Tra le diverse posizioni assunte dai letterati italiani si distinse quella di Alessandro Manzoni. Lo scrittore decise di non usare il fiorentino del Trecento (che considerava una lingua morta), ma il fiorentino vivo, parlato dalle persone colte della sua epoca, e lo scelse per l’edizione definitiva del suo capolavoro, I promessi sposi (1840).
Nel Novecento l’uso dell’italiano andò gradualmente affermandosi a scapito dei dialetti, sia grazie all’introduzione dell’obbligo scolastico sia, più tardi, grazie ai mezzi di comunicazione di massa, soprattutto la televisione.
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